Diritto del lavoro, Licenziamento

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo 2025

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo 2025: nozione, campo di applicazione, obbligo di repêchage

Spesso si tende a collegare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo solo ai cosiddetti “motivi economici”; in realtà, il campo di applicazione dell’istituto è molto più esteso. Ecco perché è bene definirne l’ambito, analizzando con particolare attenzione, oltre che le diverse disposizioni “emergenziali” emanate durante la pandemia da Coronavirus, anche l’obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro, pena la possibile illegittimità del recesso.

Che cosa si intende per “licenziamento per giustificato motivo oggettivo”

La definizione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di per sé molto ampia e “generica”, è contenuta nell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Tale norma, mai modificata negli anni, dispone che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo – beninteso, da un rapporto a tempo indeterminato e sempre con il dovuto preavviso – è determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (inclusa la sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente: INL, Nota 24 giugno 2020, prot. n. 298; Trib. Ravenna 7 gennaio 2021). L’onere di dimostrare la sopravvenuta inidoneità a rendere la prestazione da parte del dipendente ricade in toto sul datore: in difetto di tale prova, il licenziamento è illegittimo (Cass. ord. 12 aprile 2024 n. 9937).

Ad avviso della più recente giurisprudenza – a differenza dei talvolta (a torto) invocati cd. “motivi economici” (dei quali non si rinviene traccia nella normativa vigente) – il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legato alle “cause” espressamente indicate dalla norma, e quindi esso è abitualmente ritenuto sussistente in presenza di una riorganizzazione dell’attività del datore di lavoro che sia volta a migliorarne l’efficienza nell’ambito del mercato di interesse. Da tale riorganizzazione – che deve essere compiutamente dimostrata da parte del datore che recede – deve conseguire l’esternalizzazione di una determinata attività svolta sino a quel momento, la sua riduzione o anche la totale eliminazione, con conseguente esigenza di sopprimere un singolo posto o un intero reparto.

→ Esempi Il datore di lavoro che, sino a quel momento, aveva prima effettivamente prodotto e poi anche commercializzato un determinato bene di consumo, potrebbe decidere che per lui è più conveniente acquistare tale bene da un altro produttore e limitarsi, dal proprio canto, alla sola commercializzazione. Altro esempio potrebbe riguardare l’unificazione delle funzioni “commerciale” e “marketing”, prima assegnate a due diverse persone, con conseguente esubero di una di esse.

La previsione di cui all’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, deve poi essere “letta”, e quindi, applicata alla luce del principio contenuto nell’articolo 41 della Costituzione, il quale stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera, dal che ne discende la conseguente facoltà del datore di lavoro di organizzare la propria impresa come meglio ritiene opportuno.

Corte di Cassazione – Sentenza 27 dicembre 2021, n. 41586
Particolarmente “illuminante” quanto affermato nella motivazione di questa recentissima sentenza della Suprema Corte, secondo la quale, ai fini dell’accertamento della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, occorre che, ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, siano ravvisabili cumulativamente tre requisiti:
a) la soppressione del settore lavorativo, del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza a lui attribuite;
b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purché effettivi e non simulati – diretti a incidere sulla struttura e sulla organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati a una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività;
c) l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, sebbene privo di espressa previsione normativa, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere in alcun modo condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore.
L’onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.

Ne deriva, quindi, che un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – se il datore dimostra l’effettività della riorganizzazione della propria impresa – è legittimo a prescindere dal fatto che i conti dell’impresa siano “in ordine” o meno, e quindi anche se vi sono evidenti utili di bilancio. Diversamente, ove il recesso fosse possibile solo per “motivi economici”, il datore in utile non potrebbe recedere dal contratto.

Quindi, in buona sostanza, ad avviso del più recente orientamento della Suprema Corte, per la legittimità del recesso, è sufficiente che le ragioni (addotte dal datore) inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale o a un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa (Cass. 10 maggio 2022, n. 14840). Da ultimo va evidenziato che non rientra nella nozione di giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato in relazione al superamento (o anche di mancato superamento) del periodo di comporto di cui all’art. 2110, co. 2, cod. civ. (Cass. S.U. 22 maggio 2018, n. 12568).

Licenziamento per GMO: requisiti sostanziali di legittimità

Il datore di lavoro il quale, vistosi citato in giudizio da parte del dipendente che è stato licenziato, non desideri perdere la causa, deve dimostrare al giudice quanto segue:

  1. l’effettività (ossia la veridicità) della ragione addotta a fondamento del licenziamento;
  2. che è stato licenziato il lavoratore che, sino a quel momento, svolgeva le attività che sono state soppresse o esternalizzate: si tratta del cd. “nesso di causalità”;
  3. che ha assolto all’onere di repêchage.

Va infatti ricordato che, come dispone l’articolo 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, l’onere della prova della sussistenza (della giusta causa o) del giustificato motivo di licenziamento spetta sempre al datore di lavoro.

L’obbligo di repêchage nel licenziamento per GMO

Come anticipato appena sopra, il terzo requisito si fonda sul fatto che, prima di licenziare, il datore di lavoro deve analizzare la situazione della propria impresa, cercando di capire se non esistano mansioni “scoperte” da affidare al dipendente che è potenziale destinatario del recesso. L’obiettivo di tale analisi è proprio quello di scongiurare la perdita del posto di lavoro, ciò che costituisce il bene supremo di ogni lavoratore subordinato.

Va da sé che la ricerca di posizioni alternative deve essere condotta secondo correttezza e buona fede, escludendo però le mansioni che non esistono o quelle che il dipendente non è assolutamente in grado di svolgere: basti pensare all’esistenza di possibili posti alternativi che richiedano particolari abilitazioni o competenze (es. il porto d’armi, una particolare patente di guida, l’ottima conoscenza della lingua russa, e così via).

In questo senso, da ultimo, Cass. ord. 19 aprile 2024, n. 10627, che ha escluso la violazione dell’obbligo in esame nel caso del licenziamento di un operaio del reparto calzature a fronte della nuova assunzione (per soli 12 mesi) di una impiegata con mansioni di “addetta al web”.

La legittimità del licenziamento per soppressione del posto richiede che l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore sia verificata anche con riguardo alle mansioni superiori di fatto assegnate e da lui svolte (Cass. ord. 20 ottobre 2022, n. 30950), ovvero a quelle inferiori che sia in grado di svolgere, anche con un contratto a tempo determinato (Cass. ord. 10 luglio 2024, n. 18904).

Resta tutta da valutare, in base alla giurisprudenza che si formerà in futuro in materia, la questione dell’eventuale licenziamento intimato da parte di un co-datore nell’ambito di un contratto di rete, con assai verosimile obbligo di repêchage in capo agli altri co-datori che siano anch’essi parti del contratto di rete: per un cenno generale rispetto a tale argomento si vedano le indicazioni contenute nel D.M. 29 ottobre 2021, n. 205; e la Nota INL 22 febbraio 2022, n. 315.

A prescindere da quanto previsto dall’articolo 8, co. 1, del D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 – a mente del quale il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto da tempo pieno a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento – è legittimo il licenziamento del dipendente che – a fronte di effettive esigenze economiche e organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto – rifiuti di acconsentire alla riduzione del proprio orario di lavoro (Cass. ord. 9 maggio 2023, n. 12244).

È illegittimo il licenziamento del lavoratore che condivide su Facebook un post non riferibile all’attuale datore di lavoro

Con ordinanza n. 28828 del 8 novembre 2024, la Corte di Cassazione ha stabilito che è illegittimo il licenziamento del lavoratore se il post pubblicato su Facebook non è riferibile all’attuale datore di lavoro, nello specifico contenente un invito a vedere una fiction su una bambina deceduta dopo aver vissuto vicino a un impianto siderurgico.
Nel caso di specie, l’azienda datrice di lavoro, ritenendo il post “gravemente lesivo dell’immagine e della reputazione aziendale” procedeva al licenziamento del lavoratore per giusta causa del lavoratore.
La Suprema Corte ha affermato l’illegittimità del licenziamento in quanto il contenuto social non poteva essere riconducibile all’attuale datore di lavoro, che solo recentemente aveva rilevato lo stabilimento dove era impiegato il dipendente. Il post era infatti privo di riferimenti espliciti; conseguentemente, l’assenza di un evidente collegamento con l’identità del nuovo datore di lavoro non poteva generare un comportamento rilevante dal punto di vista disciplinare.